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Dicendo “brugola”, metà degli interlocutori non sa di cosa state parlando, una minima parte capisce, la maggioranza degli altri sbaglia parzialmente…

…nel senso che confonde l’essenza, ossia l’oggetto complessivo indicato dal termine, con uno degli strumenti, fondamentale ma sussidiario.È grave. In un film di Aldo, Giovanni e Giacomo (Tre uomini e una gamba) compare anche un’auto con l’insegna pubblicitaria “Il paradiso della brugola”, notevole presa in giro delle réclame più o meno subliminali sparse in molte pellicole. Ma è grave, soprattutto, perché “brugola” è una tappa decisiva nel passaggio dell’Italia da società arcaica a società industriale. È l’unico caso in cui un nome proprio nazionale diviene termine comune a indicare un oggetto prodotto tecnicamente. Quello che si dice, in termini retorici, antonomasia. Quello che, nell’odierno linguaggio universale, capita soltanto in altri rari casi, quasi tutti estranei all’Italia: la penna Bic, il rasoio Gillette, il motore Diesel (forse, unica eccezione è Martini, che, in Usa, vale come “commodity”).

Si sta parlando di viti. Qui, il terreno – a dispetto di quel che parrebbe – è scivoloso. Intanto, perché di viti ce ne sono tante. Non solo la vite a taglio cacciavite… ci sono anche la vite a croce (definita anche “Philips”), la Vte, cioè vite a testa esagonale, la Vtcse, ovvero vite a testa cava esagonale, la Polydrive, perché ha la testa cava col sistema omonimo, viti “senza testa con cava” di varie forme, dette “grani” e, ancora, molte altre, identificate in base all’applicazione, ove spiccano le cosiddette viti “critiche per motore a combustione interna” chiamate anche “critical fasteners”.

Ma siamo andati troppo avanti. Bisogna tornare a quando, nel 1926, nasce a Lissone – piena Brianza – la OEB, Officine Egidio Brugola. La madre di Egidio ha una piccola bottega. In una zona dove tutti sono proiettati sulla falegnameria, lui dimostra presto una gran passione per la meccanica. Trova lavoro alla Cagnola, una ditta locale che produce molle e rondelle. La lascia (insieme a quello che diventerà il suo “capo della produzione”) per mettersi in proprio, aprendo una piccola officina di ferramenta, in via Cesare Battisti. Produce molle e rondelle (quelle che servono a fissare i binari alle traversine) anche lui, all’inizio. Ma nel giro di poco tempo si dedica a qualcos’altro, si specializza, appunto, nelle viti. In un particolare tipo di vite, anzi. Quella che a lui verrà associata tanto da prendere il suo nome. È quella a testa cilindrica con cava esagonale, che si fissa con una chiave maschio dalla forma corrispondente. Dei suoi pregi fa un’efficace descrizione Marco Malvaldi in un breve racconto apparso su La filosofia del brevetto: «In primo luogo permette di insinuare la chiave all’interno di parti difficili da raggiungere con un normale cacciavite, perché si richiede poco spazio al di sopra della vite per agire. In assemblaggio di motori, e comunque di ingranaggi meccanici, la cosa è fondamentale. Ma soprattutto la leva che si utilizza è lunga. Avendo una leva lunga su cui agire, la coppia della forza che si applica è molto maggiore rispetto a quella di un normale cacciavite. Più lunga si ha, e meglio è… E quindi, facendo più forza, è anche più facile che la vite si rompa o si rovini!… A meno che la vite non sia resa più elastica» (la precisazione finale risulterà chiara più avanti…). Questo sistema non è un’invenzione di Egidio. Quella che verrà chiamata “brugola” è stata brevettata nel 1910 da un americano, un tale Allen. Il suo tocco in più è un altro: «Mio nonno ha cominciato a commercializzare le viti in grandi serie, inventando una conformazione della vite che garantiva maggiore elasticità», racconta il nipote oggi a capo dell’azienda, Egidio anche lui ma chiamato da tutti Jody. È la vite a testa cava esagonale, ma “con torciglione”, elemento elastico ottenuto durante la filettatura con specifici attrezzi, risolvendo così il problema di fragilità accennato sopra da Malvaldi. Che qui fa quasi un’epopea: «Il signor Brugola, più semplicemente, si era accontentato della geometria. Grazie a un campo più astratto, più vicino al mondo delle idee, rispetto alla rozza chimica dei materiali, il signor Brugola poteva fare a meno di ricaricare il costo della novità su ogni singolo pezzo, dato che l’unica cosa a dover cambiare era a ben guardare un singolo stampino». La produzione in serie inizia nel 1927, con varie applicazioni. L’idea, però, verrà difesa con un brevetto solo alla fine del 1945. Deriva da qui la progressiva identificazione col nome del produttore.

Molte cose sono successe nel frattempo. La OEB cresce. Un secondo stabilimento arriva rilevando la tessitura Ponte Lambro, ancor oggi sede dello stabilimento OEB1. E deve traversare il periodo duro delle sanzioni e della guerra. «Per avere il materiale che ci serviva alla produzione bisognava compilare gli statini in modo da dimostrare che non imboscavamo surplus o eccedenze, anche con la percentuale di “sfrido”, cioè quel che va perduto durante la lavorazione», ricorda Luigina Girardi, assunta il 1 dicembre 1940, che è stata segretaria per Egidio e poi per il figlio Giannantonio. Il conflitto obbliga alla riconversione per rifornire l’industria bellica. E provoca un episodio drammatico per l’azienda, che ormai conta oltre duecento dipendenti. Nel settembre 1943, i tedeschi ne ammazzano tre. La dinamica è ancora poco chiara. Una versione non prevede risvolti politici. Gli uomini verrebbero fucilati perché colti in flagrante mentre rubano qualcosa. Secondo un’altra ricostruzione – è quella condivisa da Luigina – si tratterebbe di un vero episodio di resistenza. I tre fanno parte di un nucleo partigiano e hanno sparato addosso a una pattuglia germanica, uccidendo un paio di soldati. La rappresaglia, comunque, non lascia scampo. I tedeschi li catturano nello stabilimento di via Battisti. Viene coinvolto anche Egidio. Anche qui le ricostruzioni sono confuse. Pare che rischi di essere fucilato. Se la cava, invece. Qualcuno si mette di mezzo: forse il cardinale di Milano, Schuster, forse due dipendenti della ditta, due fratelli notoriamente di fede fascista che garantiscono per lui.

Passione per i leoni. La ricostruzione e la ripresa economica segnano il decollo della OEB. Arriva il brevetto per il “torciglione” (anche se sarà lungo trent’anni uno strascico legale con i tedeschi della Bauer). Egidio non si culla sugli allori: «Aveva un soprannome: lo chiamavano “genio”. Era in grado di mettere in difficoltà anche gli ingegneri più esperti. Mi ha raccontato mio padre che, nel dopoguerra, gli capitava di accompagnarlo, la domenica mattina, alle riunioni di un gruppo di lavoro composto da tecnici e professori, a Monza o al Politecnico milanese: aveva il diploma di quinta elementare ma, quando interveniva, pendevano tutti dalle sue labbra», racconta Jody. Nel 1958, sono Brugola le viti che Ettore Sottsass decide di usare per uno dei primi computer costruiti al mondo: l’ELEA 9002.

Nel 1959, però, il fondatore scompare. All’improvviso, non ancora cinquantottenne: un infarto, la prima volta che va in vacanza all’Elba. «Mi chiedeva spesso: come va a finire quest’azienda se muoio io?», ricorda Luigina. Il colpo è forte ma non letale. La guida della OEB tocca alla moglie Emmy, fino al 1964 quando la responsabilità direttiva passa al figlio Giannantonio, classe 1942, che razionalizza e concentra la produzione. La fama della ditta ormai oltrepassa abbondantemente i confini nazionali. Provengono da Lissone le viti per le prime macchine da scrivere della IBM. Giannantonio cura l’immagine: «Mio padre era appassionato di animali selvatici: tigri, leoni, pantere che infatti compaiono regolarmente nella pubblicità accanto al logo aziendale», sottolinea Jody. Ma, soprattutto, compie scelte precise.

Acciai di pregio. Dalla fine degli anni 80, la OEB si dedica solo al settore automotive: «Ovvero abbandoniamo la bulloneria normalizzata standard per passare a quella speciale con acciai legati di pregio». E, nel 1993, arriva un nuovo, sostanziale, brevetto: il Polydrive, che permette di usare un duplice sistema di chiavi e riduce ulteriormente l’usura dell’utensile di serraggio. Riguardo a Polydrive, dalla Germania arriveranno soddisfazioni e seccature. Le prime provengono dalla Volkswagen, che sposa una proposta OEB – la garanzia del “Difetto Zero” – e rende l’azienda, dal 1993, fornitore unico delle viti di fissaggio della testata cilindrica. Le seconde nascono da una nuova vertenza, stavolta con la ditta tedesca Ribe, per il brevetto mondiale di Polydrive: ci vorranno altri dieci anni, poi i nostri la spunteranno. Altri grandi marchi automobilistici si aggiungono al carnet OEB (è del 1996 la commessa della Ford per sviluppare tutta la bulloneria di un nuovo propulsore) che, oggi, è leader mondiale per viti da testata (quelle che la fissano al blocco motore), oltrechè fra i maggiori produttori mondiali di vitibiella (le più problematiche, quelle su cui si scarica la forza del pistone quando aumentano i giri). Eliminare la fosfatazione del filo, risolvere il problema dell’infragilimento da idrogeno, progredire sulla via del downsizing (cioè viti sempre più piccole per motori sempre più piccoli): sono queste le sfide che Jody Brugola – alla guida della ditta dal 2013 – si trova davanti. Intanto, ci si è anche preoccupati molto di un altro aspetto: avvicinare la rete di distribuzione ai clienti, in modo da garantire rapidi tempi di consegna. Sono nate così filiali logistiche in diversi Paesi del mondo. L’anno scorso, poi, è stata aperto uno stabilimento produttivo in Michigan. Quasi un riscatto. C’era già stato un tentativo di sbarcare in Usa, a meta degli anni ’80, ed era fallito: «Ora chiudiamo l’anello mancante. Era l’ultimo sogno di mio padre che vedeva lì il nostro futuro», commenta Jody